19/01/2025
La mostra
Su Picasso è stato scritto tutto, si direbbe. Nessun altro artista ha suscitato altrettanti dibattiti, controversie, passioni. Ma quanti sanno quali ostacoli il giovane genio ha dovuto affrontare quando è arrivato a Parigi per la prima volta, nel 1900, senza parlare una parola di francese? Nel 1901 viene schedato per sbaglio come anarchico sottoposto a sorveglianza speciale. Guardato con sospetto come straniero, uomo di sinistra, artista d’avanguardia, si destreggia con abilità e acume politico in un paese che poggia su due grandi istituzioni: la police des étrangers e l’Académie des beaux-arts, che tutelano ossessivamente la «purezza della nazione» e il «buon gusto francese». Mentre le opere di Picasso vengono celebrate nel mondo intero, fino al 1947 ce ne sono soltanto due nelle collezioni pubbliche francesi. Nel 1955, quando Picasso lascia Parigi per stabilirsi nel sud della Francia, sceglie di lavorare con gli artigiani del posto, voltando deliberatamente le spalle alla tradizione del bon goût: decide insomma di reimmergersi nel mondo mediterraneo, nel sincretismo originario delle sue molteplici identità, consegnando il proprio mito al vasto mondo.
Ma come ha fatto a conciliare i suoi numerosissimi ambiti di appartenenza – spagnolo, francese, andaluso, catalano, galiziano, castigliano, anarchico, comunista? E come ha fatto, in un secolo caratterizzato da grandi turbolenze politiche (due guerre mondiali, una guerra civile, una guerra fredda), in un mondo dilaniato da nazionalismi di ogni specie, a imporre le sue rivoluzioni estetiche? Picasso lo straniero ambisce a rispondere a queste domande. Il fatto che il più grande artista del Novecento sia stato schedato e marchiato dalla polizia perché straniero dovrebbe farci riflettere sugli attuali rigurgiti di ordinaria xenofobia.