Un solo nome, quello di Lucius, si è tramandato a rappresentare l’intera categoria dei pittori che per secoli si impegnarono nella decorazione delle case pompeiane. Una firma peraltro apposta vicino a opere mediocri e che allo stato attuale delle ricerche non racconta nient’altro di colui che le realizzò. Questo piccolo mistero è uno dei tanti relativi al vasto apparato pittorico rinvenuto nella città vesuviana e giunto fino a noi, e può essere assurto a simbolo di un tema ben più ampio, quello dei pittori di Pompei: a loro il Museo Archeologico di Bologna dedica una mostra allestita con circa un centinaio di dipinti e oggetti (alcuni esposti per la prima volta) provenienti dal Museo Archeologico Nazionale di Napoli e dai suoi depositi.
Parrebbe originale la scelta caduta sulla città felsinea per portare alla fruizione del pubblico gli affreschi di Pompei, Ercolano e Boscoreale, e invece il legame tra i due territori è più stretto di quanto non si immagini. A fare da trait d’union sta infatti la figura di Edoardo Brizio, primo direttore del museo bolognese: nato in Piemonte, dal 1868 studiò nella Prima Scuola Archeologica Italiana che aveva sede proprio a Pompei. Terminata la permanenza all’ombra del Vesuvio, Brizio giunse a Bologna, assumendo poi l’incarico di riorganizzare scientificamente la sezione archeologica del museo, che venne inaugurato il 25 settembre 1881. Inoltre, precisa il curatore Mario Grimaldi in un’intervista rilasciata ad Artribune, Brizio fu presente durante lo scavo della casa di Gavio Rufo, i cui dipinti sono esposti in mostra:
“È una sorta di cerchio che si chiude. La domus è un ambiente meraviglioso con tre affreschi che hanno al centro il tema di Apollo in trono e Teseo liberatore. In queste opere si riconosce benissimo la mano del pittore che, pur usando modelli noti e ripetuti, manifesta caratteristiche ben riconoscibili, come l’attenzione alle nature morte e i mantelli rossi con bordo azzurro”.
LA MOSTRA SU POMPEI A BOLOGNA
Ecco allora che, per andare oltre l’interpretazione della pittura pompeiana in base ai canonici quattro “stili”, il progetto cerca di dare possibili risposte a questioni del tipo: chi erano i pittori di Pompei? Quali le loro le personalità, il ruolo sociale, il rapporto con i committenti, il loro status economico? Una missione nient’affatto facile, visto che le testimonianze sono rare, ma senza dubbio di grande fascino. Naturalmente non si pretende di rintracciare i nomi veri e propri degli artisti, ma di delineare la loro identità, di svelarne l’“anima” attraverso uno studio multidisciplinare che tiene in considerazione i dati chimici, i tipi di materiali, lo stile, le condizioni giuridiche ed economiche.
Innanzitutto ci si deve chiedere come mai, in epoca romana, il pittore non utilizzava il suo lavoro come definizione sociale, tanto che la pittura pompeiana viene spesso definita come “arte senza maestri”. Grimaldi spiega: “L’assenza di attestazioni di autodefinizione e di firme (frequenti al contrario tra copisti e scultores) è legata evidentemente a ciò che Plinio definisce ‘diminutio’ della pittura su parete. Si sono invece tramandati vari nomi di pittori da cavalletto che, sempre sulla base di ciò che scrive Plinio, godevano di maggior dignità. A conferma si aggiunge che non esistono ritratti di pittori al lavoro su pareti, mentre c’è qualche esempio che raffigura dei pittori da cavalletto”.
LA PITTURA NELL’ANTICA POMPEI
La mostra si apre con un divertente focus sui falsi d’autore realizzati in contemporanea ai primi scavi a Pompei e che documentano la grande fortuna che ebbero da subito gli antichi dipinti. Ampio spazio viene dedicato ai “repertori”, come spiega Grimaldi: “Esponiamo affreschi raffiguranti lo stesso tema ma realizzati da pittori diversi, in modo da aiutare il visitatore a comprendere le affinità e le differenze che consentono di attribuire le opere a diversi artefici”. Si indagano inoltre le tematiche di maggior successo nei vari periodi, dalle storie e personaggi tratti dai poemi omerici alle raffigurazioni degli amori tra divinità ed eroi, e poi all’utilizzo di scenografie architettoniche e all’inserimento delle nature morte. Ad esempio, prosegue il curatore, “il soggetto di Ercole e Onfale piace moltissimo in età neroniana poiché è emblema dell’eroe vinto dalla musica, dall’amore e da Dioniso. Nel dipinto rinvenuto nella casa di Marco Lucrezio il pittore si supera con un dettaglio mai evidenziato: ha messo delle pennellate di bianco sopra ogni foro del flauto vicino all’orecchio di Ercole, in modo da rappresentare visivamente il suono che scaturisce dallo strumento”. Si portano inoltre all’attenzione dei visitatori i modelli greci, che di frequente si contaminavano con i linguaggi contemporanei e locali, e si approfondisce il rapporto tra disegni e modelli. Interessantissima pure l’indagine sull’invenzione ellenistica delle figure delle Tre Grazie, che non hanno ancora smesso di esprimere la loro forza estetica ed evocativa.
COME LAVORAVANO I PITTORI A POMPEI
A illustrare le tecniche e i colori si espongono gli strumenti, comprese alcune ciotole colme di pigmenti e delle monete. Oltre a far comprendere come lavoravano i pictores, grazie a questi oggetti emerge la questione economica: i colori potevano essere pagati dal committente o dal pittore e quest’ultimo, al momento dell’acquisto, assumeva un certo potere contrattuale e di gestione del denaro. La qualità dei pigmenti, la scelta della tipologia e la varietà cromatica ci dicono molto sulla maggior o minore ricchezza delle città e dei proprietari delle case.
Infine, la sezione dei contesti, forse la più affascinante. La grande sorpresa della mostra bolognese è la ricostruzione di alcuni ambienti che danno l’impressione di trovarsi davvero all’interno delle ricche domus vesuviane, comprendendo allo stesso tempo la stretta relazione tra architettura e decorazione. Dalla casa di Giasone provengono straordinari affreschi che evidenziano come i dipinti tenessero in considerazione l’illuminazione reale delle antiche stanze; di particolare rilievo è pure la ricomposizione degli affreschi della casa di Meleagro, che si caratterizzano per un segno innovativo, con i registri superiori costituiti da un mix di stucco e pittura.
La storia di Pompei, come è ben noto, terminò nel 79 d.C., “ma la pittura continuò a vivere, e per osservare l’evoluzione della decorazione parietale romana dopo la violenta eruzione del Vesuvio, basta recarsi a Ostia o Roma”, conclude Grimaldi, invitandoci a percorrere altre tappe della timeline della decorazione parietale antica.
LE TECNICHE DI PITTURA A POMPEI
Per introdurre l’argomento relativo alle modalità operative dei pittori romani, John R. Clarke – professore all’Università del Texas e autore di un testo su questo tema in catalogo – prende in esame un frammento di intonaco della Villa A di Oplontis in cui si notano le linee della quadrettatura in ocra rossa, chiara dimostrazione che i decoratori tracciavano una “griglia” con il filo a piombo e la squadra in modo da poter replicare in scala un modello, probabilmente proprio quello scelto dal committente. Sullo stesso frammento compaiono anche dei bozzetti architettonici che si ritrovano poi dipinti in altre sale del medesimo edificio. Ma quali potevano essere le fonti di queste immagini, costituite anche da figure o gruppi di figure? Lo studioso ne identifica quattro: una sorta di libro di modelli contenente tutti i dettagli di un particolare dipinto; un libro con i soli contorni di figure e sfondi; o ancora con schizzi di singole figure o semplici gruppi; infine, a memoria. Quadrettature, bozzetti, sinopie, libri di disegni: tutti fattori che i pittori hanno utilizzato non solo in epoca romana ma fino a tempi assai recenti.